Il Seminario. Libro XIX. ... o peggio

Testo stabilito da Jacques-Alain Miller
edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia
Casa Editrice Giulio Einaudi, 2020

IX

Nel campo dell’Uniano

 

L’ultima volta vi ho raccontato qualcosa che era incentrato sull’Altro, qualcosa che è piú semplice di ciò di cui vi parlerò oggi e di cui vi ho già caratterizzato il rapporto con l’Altro dicendovi precisamente che non è inscrivibile, cosa che non ci agevola.

Si tratta dell’Uno.

Vi ho già indicato come la sua traccia si sia delineata nel Parmenide di Platone.

Il primo passo per capirci qualcosa sta nell’accorgersi che tutto ciò che il Parmenide enuncia dell’Uno in quanto dialettizzabile, in quanto si sviluppa da ogni discorso possibile a proposito dell’Uno, parte da un livello dove non ne viene detto nient’altro se non che è Uno – è cosí che si esprime.

Forse un certo numero di voi, dando retta alle mie suppliche, ha aperto questo libro e si è reso conto che non è la stessa cosa del dire l’Uno è. È Uno è la prima congettura, l’Uno è è la seconda. Sono due cose distinte.

Naturalmente, affinché questa distinzione abbia una portata, bisogna che leggiate Platone mettendoci un pizzico di farina del vostro sacco. Bisogna che Platone non sia per voi semplicemente quello che è, un autore. Siete stati educati fin dall’infanzia a fare dell’autore-stop. Ma essendo un costume diventato abituale ormai da tempo, dovreste sapere che questo modo di rivolgervi a quei cosi lí come autorizzati non porta da nessuna parte. Anche se, naturalmente, può portarvi molto lontano.
Fatte queste osservazioni, oggi vi intratterrò sull’Uno, per dei motivi per i quali occorrerà anche che mi giustifichi. E infatti, in nome di che cosa dovrei impegnarvi con questo argomento? Dato che vi parlerò dell’Uno, ho inventato un termine che valga da titolo a ciò che ve ne dirò.

L’Unario non l’ho inventato. Nel 1962 ho ritenuto di poter estrarre da Freud il tratto unario, traducendo in tal modo quello che egli chiama einziger Zug, la seconda forma di identificazione da lui distinta. Allora la cosa era parsa prodigiosa ad alcuni, che stranamente non vi si erano mai soffermati fino a quel momento. Il termine di cui mi servirò per abbracciare quanto vi dirò oggi è invece completamente nuovo. […]

Platone considera l’Uno mediante un’interrogazione discorsiva. Chi viene interrogato? Evidentemente non è il povero piccolo, il tesoruccio di nome Aristotele, di cui risulta difficile credere che possa essere in quel momento quello che ci ha lasciato la sua memoria. Come in ogni altro dialogo platonico non c’è traccia di interlocutore. Sembra chiamarsi dialogo soltanto per illustrare qualcosa che vado enunciando da molto tempo: che di dialogo,  per l’appunto, non ce n’è. Questo non vuol dire che non ci sia, in fondo al dialogo platonico, una presenza ben diversa, una presenza umana, diciamolo, ben diversa da quella che troviamo in innumerevoli altre cose scritte successivamente.

Per testimoniarla ci basterebbero i primi approcci, il modo in cui viene preparato ciò che costituisce il nocciolo del dialogo, quello che chiamerei il colloquio preliminare. Come in tutti i dialoghi qualcuno ci spiega in che modo sia avvenuta quella cosa folle che non assomiglia per nulla a qualunque cosa noi possiamo chiamare dialogo. È qui che si può percepire veramente, nel caso che non lo si sia ancora appreso dalla vita ordinaria, che non si è mai visto un dialogo approdare a qualche cosa. In questa letteratura, che ha una precisa datazione, il cosiddetto dialogo ha la funzione di afferrare quale sia il reale che può dare l’illusione che, dialogando con qualcuno, si possa arrivare da qualche parte. E dunque giova che lo si prepari, che si dica di quale aggeggio si tratta.

Ci voleva nientemeno che il vecchio Parmenide con la sua cricca perché potesse enunciarsi qualcosa che fa parlare… chi? Ebbene, per l’appunto l’Uno. E a partire dal momento in cui lo fate parlare, vale la pena di vedere a che cosa ciò serva. Quello che si fa attaccare il bottone non può che dire delle cose come queste: Αναγκη, Ου γαρ, Τι δη, Αληθη. Accipicchia, tre volte piú vero di quello che dicevate, no? È cosí il dialogo quando a parlare è l’Uno.

Quello che è curioso è il modo in cui Parmenide lo introduce. Egli lo blandisce, l’Uno, gli spiega, al suo pupillo: Suvvia, parli, caro piccolo Uno, sono soltanto ciance. Non traducetemi αδολεσχιας pensando che si tratti di adolescenti – lo dico per gli inesperti, soprattutto perché potreste confondervi in quanto nella pagina di fronte vi si dice che bisogna comportarsi come dei sempliciotti, dei pivellini. Non sono chiamati cosí, i pivellini, nel testo greco. Αδολεσχιας vuol dire chiacchiera. Possiamo considerare che si tratti di qualcosa di simile alla prefigurazione di quello che noi, nel nostro linguaggio rozzo, intessuto da quanto si è attinto dalla fenomenologia che si poteva avere a portata di mano all’epoca, chiamiamo associazione libera.

Naturalmente l’associazione non è libera. Se fosse libera non presenterebbe nessun interesse. Ma non è diversa dalla chiacchiera. È fatta per addomesticare i passerotti. L’associazione, è chiaro che è legata. Non vedo quale sarebbe il suo interesse se fosse libera. La chiacchiera in questione, siccome a parlare non è qualcuno bensí l’Uno, si può constatare fino a che punto sia legata giacché è molto dimostrativa.

Mettere le cose in questa luce permette di inquadrare il passo che si compie da Parmenide a Platone.

All’interno di questa cerchia, in cui si trattava in definitiva di sapere che cos’è il reale, c’era già stato il passo compiuto da Parmenide. Dopo che era stato detto che si trattava dell’aria, dell’acqua, della terra e del fuoco, non restava altro che ricominciare. Il passo di Parmenide consiste nell’essersi accorto che l’unico fattore comune di tutta questa sostanza stava nell’essere dicibile.

Il passo di Platone è diverso. Esso consiste nel mostrare come, non appena si tenti di enunciarlo in un modo articolato, ciò che si viene delineando della struttura – come si direbbe in quello che poc’anzi ho chiamato il nostro linguaggio rozzo, giacché il termine struttura non vale di piú dell’espressione associazione libera – costituisca una difficoltà, e che il reale è da cercare proprio in questa direzione. Ειδος, che viene impropriamente tradotto con forma, è qualcosa che ci promette già di cogliere ciò che produce una falla beante nel dire.

In altri termini, per farla breve, Platone era lacaniano. Naturalmente non poteva saperlo. Inoltre era un po’ debile, il che non semplifica le cose ma l’ha sicuramente aiutato. Chiamo debilità mentale il fatto di essere un essere parlante che non è installato saldamente in un discorso. È questo a costituire il pregio del debile. Non c’è nessun’altra definizione che gli si possa attribuire se non quella di essere, come si dice, un po’ fuori strada, e cioè di fluttuare tra due discorsi. Per essere saldamente installato come soggetto bisogna attenersi a un solo discorso, oppure sapere quello che si fa. Ma non è perché ci si trova ai margini che si sa quello che si dice.

Per quanto riguarda il caso di Platone, egli aveva dei quadri di riferimento. Non bisogna pensare che ai suoi tempi le cose non fossero prese in un discorso solido, e Platone se lo lascia sfuggire da qualche parte nei colloqui preliminari del Parmenide. È comunque lui che l’ha scritto, non sappiamo se per divertirsi o no, ma insomma non ha aspettato Hegel per proporci la dialettica del padrone e dello schiavo.

Devo dire che quello che ne enuncia ha un assetto diverso da ciò che avanza la Fenomenologia dello spirito. Non giunge a una conclusione, tuttavia fornisce gli elementi materiali. Procede. Può farlo perché ai suoi tempi i padroni e gli schiavi non erano un bluff. Ci si chiede se era meglio o peggio potersi figurare che le cose potevano cambiare da un momento all’altro. E in effetti cambiavano continuamente. Quando i padroni venivano fatti prigionieri diventavano schiavi, e quando gli schiavi venivano affrancati, beh, diventavano padroni. Ragion per cui Platone suppone, e lo dice nei preliminari di questo dialogo, che l’essenza del padrone, il suo ειδος, e quella dello schiavo non abbiano nulla a che vedere con ciò che essi sono realmente. Il padrone e lo schiavo intrattengono dei rapporti che non hanno nulla a che vedere con il rapporto fra l’essenza-padrone e l’essenza-schiavo. È proprio qui che Platone è un po’ debile.

Noi abbiamo visto effettuare il grande miscuglio, che si compie sempre per una certa via di cui curiosamente non si vede a che punto prometta il seguito – che siamo tutti fratelli, no? C’è una regione della storia, del mito storico, voglio dire del mito in quanto è storia, nella quale lo si è visto una volta, un’unica volta, presso gli ebrei, dove è ben noto a che cosa serva la fratellanza. Da qui è scaturito il grande modello. La fratellanza è fatta perché si venda il proprio fratello, cosa che non ha mancato di verificarsi nel corso di tutte le sovversioni di cui si dice che gravitano intorno al discorso del padrone.

Considerate lo sforzo estenuante sostenuto da Hegel a livello della Fenomenologia – la paura della morte, la lotta mortale di puro prestigio, e chi piú ne ha piú ne metta –, grazie al quale, è l’essenziale da ottenere, c’è uno schiavo. Ma lo chiedo a tutti coloro che fremono per scambiare le parti: dal momento che lo schiavo sopravvive, che cosa può impedire che la paura della morte sopraggiunga subito dopo la lotta di puro prestigio, cambiando campo?

Tutto questo ha una possibilità di sussistere solo a condizione che si veda ciò che Platone scarta. Ciò che egli scarta – non sapremo mai in nome di che cosa, non possiamo, buon Dio, sondare il suo cuore, forse è semplicemente debilità mentale – è quello che chiama μετεχειν, la partecipazione, mentre sarebbe proprio questa l’occasione piú bella per rilevarne la pertinenza. Lo schiavo è schiavo sempre e solo dell’essenza del padrone. E quanto al padrone, se non ci fosse S2, il sapere dello schiavo, cosa mai se ne farebbe della sua essenza?

È questo che chiamo l’essenza, voi chiamatelo come volete, io preferisco scriverlo S1, il significante-padrone.

15 marzo 1972