Il Seminario. Libro XIX. ... o peggio

Testo stabilito da Jacques-Alain Miller
edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia
Casa Editrice Giulio Einaudi, 2020

XII

Il sapere sulla verità

 

Coloro per i quali avevo insomma fatto quel lavoro di ripresa logica che parte dal Discorso di Roma, nel momento in cui abbandonano la linea critica risultante da tale lavoro per tornare agli esseri dai quali dimostro precisamente che questo discorso deve astenersi, e di questi esseri fanno il supporto del discorso dell’analizzante, ebbene, costoro ritornano alla chiacchiera. Ecco perché quanti si sono distanziati da quel Discorso ne hanno, detto fatto, perduto il senso.

Per percepire a che punto sono, dopo essersi scollati dalla linea su cui li mantenevo, è capitato che abbiano espresso, e addirittura impresso nero su bianco, il che è piú forte, qualcosa che mostra come non sappiano piú niente del mio soggetto supposto sapere. Sono arrivati a dire che supporre che questo sapere sia proprio della posizione dell’analista è assolutamente spregevole, perché è come dire che l’analista fa finta. A questo c’è da contrapporre solo una minuzia che ho già puntualizzato prima, e cioè che l’analista non fa finta ma occupa la posizione del sembiante.

L’analista occupa legittimamente la posizione del sembiante perché non c’è nessun’altra situazione sostenibile rispetto al godimento che deve cogliere nei discorsi di colui che, in quanto analizzante, egli avalla nella sua enunciazione di soggetto. Solo da lí si scorge fin dove il godimento di questa enunciazione autorizzata possa spingersi senza dar luogo a danni troppo evidenti. Ma il sembiante non si nutre del godimento, che, a detta di coloro che ritornano al discorso della strada battuta, esso schernirebbe. Questo sembiante dà a qualcosa di diverso da sé il suo megafono, e proprio in quanto si mostra come maschera, portata, dico io, apertamente, come nel teatro greco.

Il sembiante trae vigore dall’essere manifesto. Quando l’attore porta la maschera, il suo volto non fa smorfie, non è realistico. Il pathos è riservato al coro, il quale, diciamolo pure, si dà alla pazza gioia. E perché? Perché lo spettatore, intendo quello del teatro antico, vi trovi la sua parte di plusgodere comunitario. È esattamente quello che costituisce per noi il valore del cinema. Lí la maschera è un’altra cosa, è l’irreale della proiezione. Ma torniamo a noi.

È in quanto l’analista dà voce a qualcosa che egli può dimostrare come questo riferimento al teatro greco sia opportuno. E infatti, che cosa fa l’analista occupando la posizione del sembiante? Nient’altro se non dimostrare che il terrore provato in relazione al desiderio, e con il quale si organizza la nevrosi – cosa che viene chiamata difesa –, rispetto al lavoro in pura perdita che si produce lí non è altro che uno scongiuro da far pietà. Ai due capi di questa frase ritrovate ciò che Aristotele indica a proposito dell’effetto della tragedia sull’uditore.

Dove ho detto che il sapere con cui procede questa voce è di sembianza? Deve forse apparire in tal modo? Assumere un tono ispirato? Niente di simile, né l’aria né la canzone del sembiante si addicono all’analista. Solo che, ecco, siccome questo sapere non è il sapere esoterico del godimento, e nemmeno, semplicemente, il saper-fare della moina, bisogna decidersi a parlare della verità come posizione fondamentale, anche se di questa verità non si sa tutto, giacché io la definisco in base al fatto che può dirsi solo a metà.

Ma che cos’è allora il sapere che si garantisce con la verità? Questo sapere non è nient’altro se non quello che proviene dalla notazione conseguente al fatto che si pone la verità a partire dal significante. È un atteggiamento molto difficile da sostenere, ma esso si conferma fornendo un sapere non iniziatico nella misura in cui, piaccia o non piaccia a qualcuno, procede dal soggetto che un discorso assoggetta in quanto tale alla produzione, quel soggetto che alcuni matematici hanno potuto qualificare come creativo. Resta da precisare che si tratta proprio di soggetto, il che concorda con il fatto che, nella mia logica, il soggetto si estenua nel prodursi come effetto di significante, restandone beninteso distinto cosí come un numero reale si distingue da una successione la cui convergenza è assicurata razionalmente.

Quando si dice sapere non iniziatico si dice sapere che si insegna per vie diverse da quelle, dirette, del godimento. Queste sono tutte condizionate dal fallimento fondatore del godimento sessuale, intendo dire da ciò per cui il godimento costitutivo dell’essere parlante si separa e si smarca dal godimento sessuale. La sua fioritura è certo breve e limitata, e proprio per questo si è potuto, a partire dal discorso analitico, compilare il catalogo delle vie dirette del godimento nella lista perfettamente finita delle pulsioni. La finitezza di questa lista è connessa con l’impossibilità che si dimostra nella vera e propria messa in discussione del rapporto sessuale in quanto tale. È precisamente nella pratica del rapporto sessuale che si afferma il legame tra l’impossibile e il reale che noi promuoviamo, noi come esseri parlanti, in qualsiasi altro contesto.

Il reale non ha altra attestazione.
Ogni realtà è sospetta, ma non di essere immaginaria, come mi viene attribuito, giacché è abbastanza evidente che l’immaginario quale insorge nell’etologia animale è un’articolazione del reale. Quello che dobbiamo sospettare di ogni realtà è che sia fantasmatica. E ciò che permette di sfuggirvi è, nella formula simbolica che ci è consentito trarne, un’impossibilità che ne dimostra il reale. Non a caso ci serviremo qui della parola termine per designare il simbolico in questione.

Dopotutto l’amore potrebbe essere preso per l’oggetto di una fenomenologia. L’espressione letteraria di ciò che viene esternato al riguardo è cosí abbondante da lasciar presumere di poterne trarre qualcosa. È nondimeno curioso che, fatta eccezione per alcuni autori come Stendhal e Baudelaire – lasciamo perdere la fenomenologia amorosa del surrealismo il cui moralismo fa cadere le braccia, bisogna pur dirlo –, questa espressione letteraria sia cosí limitata da impedire che appaia l’unica cosa che ci interesserebbe, ossia la stranezza.

10 maggio 1972