Testo stabilito da Jacques-Alain Miller
edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia
Casa Editrice Giulio Einaudi, 2020
V
Topologia della parola
Lo stesso anno in cui si svolse il suo seminario alla Facoltà di diritto in place du Panthéon, Lacan tenne anche delle «conversazioni» nella cappella dell’ospedale Sainte-Anne, le quali, a partire dalla quarta, furono dedicate a chiarire e a prolungare le elaborazioni del seminario. Sono qui riportate, in ordine cronologico, le conversazioni che seguono il filo di … o peggio. (JAM)
Due anni fa ho spiegato qualcosa che una volta riversato bene nella pubblicazione-spazzatura, ha preso il nome di quadripode. Avevo scelto io questo nome, e voi potreste chiedervi perché gli ho dato un nome cosí strano. Perché non quadrupede o tetrapode? Avrebbe avuto il vantaggio di non essere bastardo. In verità me lo sono chiesto anch’io scrivendolo. Non so perché l’ho mantenuto. In seguito mi sono chiesto come venivano chiamati nella mia infanzia questi termini bastardi, mezzi latini e mezzi greci. Sicuramente una volta sapevo come venivano chiamati dai puristi, ma poi l’ho dimenticato. C’è qualcuno qui che sa come si designano i termini composti da un elemento latino e da uno greco, come il termine sociologia, per esempio, o quadripode? Imploro chi lo sa di dircelo.
… Beh, non è incoraggiante. Ho cominciato a cercare l’altro ieri, e ieri, non avendo ancora trovato la risposta, mi sono messo a telefonare a una dozzina di persone che mi sembravano le piú adatte per ottenere questa risposta. E allora pazienza!
I miei quadripodi li ho chiamati cosí per suggerirvi che ci si può anche sedere sopra – tanto per rassicurare un po’ la gente, dato che ero nei mass media. Ma in realtà quando siamo tra di noi spiego come ciò che ho isolato dei quattro discorsi risulti dall’emergenza dell’ultimo arrivato, il discorso dell’analista. Esso infatti apporta, in un certo stato attuale del pensiero, un ordine con cui si chiariscono altri discorsi emersi molto tempo prima. Li ho disposti seguendo una cosiddetta topologia, la quale, pur essendo delle piú semplici, è nondimeno una topologia, nel senso che è matematizzabile, e lo è nel modo piú rudimentale, vale a dire che poggia sul raggruppamento di non piú di quattro punti che chiameremo monadi.
Sembra una bazzecola, e tuttavia si tratta di qualcosa che è inscritto cosí potentemente nella struttura del nostro mondo che di fatto non c’è altro fondamento dello spazio che viviamo. Notate bene che mettere quattro punti a uguale distanza è il massimo che possiate fare nel nostro spazio. Non metterete mai cinque punti alla stessa distanza l’uno dall’altro. […]
Per introdurre il discorso analitico mi sono servito senza scrupoli, perché era necessario farlo, del tracciato chiamato linguistica. E per moderare degli ardori che avrebbero potuto destarsi troppo in fretta intorno a me, facendovi riaffondare nella solita melma, ho ricordato come, se ha preso piede qualcosa che è degno del titolo la linguistica come scienza, qualcosa che sembra avere come oggetto la lingua, nonché la parola, ciò sia avvenuto a condizione di giurarsi, tra linguisti, che mai e mai piú – giacché per secoli non si è fatto altro –, mai piú si sarebbe fatta, nemmeno lontanamente, allusione all’origine del linguaggio. È stata questa una delle parole d’ordine che ho dato a quella sorta di introduzione che si è articolata a partire dalla mia formula l’inconscio è strutturato come un linguaggio.
Quando dico che l’ho fatto per evitare al mio uditorio di ricadere in un certo equivoco fangoso, mi servo di un’espressione usata da Freud, precisamente a proposito dei cosiddetti archetipi junghiani. Non si tratta certo di togliere ora questo interdetto. Non è assolutamente questione di speculare su qualche origine del linguaggio, bensí, come ho affermato, di formulare la funzione della parola.
La funzione della parola – è da molto tempo che lo avanzo – è quella di essere l’unica forma di azione che si ponga come verità. Chiedersi che cos’è la parola è un’interrogazione superflua. Non solo io parlo, voi parlate e perfino, come ho detto, parla, ça parle, ma ciò va da sé, è un dato di fatto, direi anzi che è l’origine di tutti i fatti, perché qualsiasi cosa assurge al rango di fatto soltanto quando è detta.
Notate bene che non ho detto quando è parlata. C’è qualcosa di diverso tra parlare e dire. Una parola che fonda il fatto è un dire, ma la parola funziona anche quando non fonda nessun fatto. Quando ordina, quando prega, quando insulta, quando esprime un voto, non fonda nessun fatto.
In questa sede possiamo permetterci dei diversivi comici. Non sono cose che produrrei di là, in quell’altra sede, nel seminario, dove fortunatamente dico delle cose piú serie. È una serietà che comporta che io sviluppi in modo sempre piú acuminato, rimanendo sempre all’apice, come nel mio ultimo seminario. Spero che ci sia meno gente la prossima volta, perché non è stato divertente. Qui, invece, si può scherzare. […]
Se nell’uomo ci fosse quello che in maniera del tutto gratuita immaginiamo che ci sia, ovvero un godimento specificato dalla polarità sessuale, lo si saprebbe. Forse lo si è saputo, intere epoche se ne sono vantate, e numerose testimonianze, purtroppo puramente esoteriche, ci attestano che ci sono state delle epoche in cui si credeva di sapere veramente come considerare la cosa. C’è per esempio il libro di un certo Van Gulik, che mi è sembrato eccellente. Come tutti, pilucca qua e là quello che si trova scritto della tradizione cinese concernente il sapere sessuale, che, vi assicuro, non è poi tanto esteso, e non è nemmeno molto illuminato. Ma insomma, se la cosa vi diverte date un’occhiata al suo libro, La vita sessuale nell’antica Cina. Vi sfido a trarne qualcosa che possa servirvi in quello che prima ho chiamato lo stato attuale del pensiero.
L’interesse di quello che segnalo non sta nel dire che le cose sono da sempre allo stesso punto a cui siamo arrivati noi. Forse ci sono stati da qualche parte, forse ci sono ancora dei luoghi dove tra l’uomo e la donna si verifica quella congiunzione armoniosa che li trasporta al settimo cielo. Tuttavia, ed è comunque davvero curioso, si tratta sempre di luoghi dove bisogna avere rigorosamente le carte in regola per entrare. Se ne sente parlare sempre soltanto da fuori.
È per contro chiarissimo come ciascuno abbia rapporto con Φ maiuscola piú che con l’altro, il partner. Ciò trova piena conferma se si considerano quelli che, con un termine assai calzante grazie all’ambiguità del latino o del greco, vengono chiamati gli omo – ecce homo, come dico io. È assolutamente certo che tra gli omo tira molto meglio, e piú spesso, e piú saldamente. È un fatto curioso ma anche fuori discussione per chiunque ne abbia sentito parlare un po’ da qualche tempo. Non ingannatevi tuttavia, c’è omo e omo. Non parlo di André Gide. Non bisogna credere che fosse un omo. […]
Allora il nostro Gide, per proseguire l’intreccio – prendo Gide, poi lo rilascio, poi ancora lo riprenderemo insieme, e cosí via –, il nostro Gide è a questo riguardo esemplare. È tutt’altro che estraneo alla nostra faccenduola. La sua faccenda riguarda l’essere desiderato. È qualcosa che troviamo comunemente nell’esplorazione analitica. Ci sono persone a cui questa cosa, l’essere desiderati, è mancata nella loro prima infanzia, e questo le spinge a usare dei trucchi perché avvenga a un’età piú avanzata. È un caso assai diffuso.
Bisogna tuttavia scindere bene le cose. Il caso in questione non è affatto senza rapporto con il discorso. Non sono chiacchiere come se ne sentono un po’ dappertutto a carnevale. Fra il discorso e il desiderio c’è un rapporto strettissimo. Anche per questo sono arrivato a isolare – perlomeno cosí penso – la funzione dell’oggetto a. Si tratta di un punto chiave da cui devo dire che non si è ancora tratto grande profitto. Accadrà pian pianino.
L’oggetto a è ciò tramite cui l’essere parlante, quando è preso nei discorsi, si determina. Egli non sa assolutamente che cosa lo determini. È l’oggetto a, per cui è determinato come soggetto, vale a dire diviso come soggetto, e in altre parole è preda del desiderio. Sembra qualcosa che avviene nello stesso posto dei discorsi sovversivi, ma non è nulla di simile. È assolutamente regolare, è una produzione, che produce matematicamente, è il caso di dirlo, l’oggetto a in quanto causa del suddetto desiderio.
L’oggetto a è anche quello che, come sapete, ho chiamato l’oggetto metonimico, l’oggetto che corre lungo quello che si svolge come discorso, discorso piú o meno coerente, fino a quando questo non incespica, e tutto va in fumo. Fatto sta, comunque, che è da qui che prendiamo l’idea di causa. Con il pretesto che noi siamo causati dal nostro bla-bla, crediamo che nella natura tutto debba avere una causa.
In André Gide troviamo tutti i tratti secondo cui le cose stanno proprio come vi ho detto. In primo luogo la sua relazione con l’Altro supremo. Malgrado tutto ciò che egli ha potuto dire, non bisogna credere che il grande Altro non avesse alcuna incidenza per Gide. Laddove A prende forma, egli ne aveva anche una nozione del tutto specifica, secondo la quale il piacere di questo grande Altro consisteva nel disturbare quello di tutti i piccoli altri. In questo modo egli ha capito molto bene che lí c’era un punto di scocciatura che evidentemente lo salvava dall’abbandono della sua infanzia. Tutte le sue punzecchiature con Dio erano qualcosa di fortemente compensatorio per uno come lui che aveva cominciato cosí male. Per altro non si tratta di un suo privilegio.
3 febbraio 1972