Testo stabilito da Jacques-Alain Miller
edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia
Casa Editrice Giulio Einaudi, 2020
I
La piccola differenza
Quando dico che non c’è rapporto sessuale, avanzo molto precisamente questa verità: che il sesso non definisce alcun rapporto nell’essere parlante.
Non nego affatto la differenza che c’è, fin dalla più tenera età, fra quella che chiamiamo una bambina e un bambino. Anzi, parto proprio da lì. Afferrate subito, vero?, che quando parto da lì, voi non sapete di che cosa sto parlando.
Non parlo della famosa piccola differenza, quella per cui a uno dei due, quando sarà sessualmente maturo, parrà assolutamente dell’ordine della battuta, del motto di spirito, lanciare un grido di giubilo: «Evviva la piccola differenza!» Basta il semplice fatto che ciò sia buffo a indicarci, denotare, fare riferimento al rapporto complessuale con quell’organo, rapporto interamente inscritto nell’esperienza analitica al quale ci ha condotti l’esperienza dell’inconscio, senza di cui non vi sarebbe motto di spirito.
La piccola differenza viene distinta molto presto come organo, il che è già tutto dire: οργανον, strumento. Un animale ha forse l’idea di avere degli organi? Da quando in qua lo si è visto? E a cosa gli servirebbe? Basterà enunciare che ogni animale – è qualcosa che ho raccontato in un altro luogo, qui lo dirò diversamente, è un modo di riprendere quanto ho enunciato recentemente a proposito della supposizione del cosiddetto godimento sessuale come strumentale nell’animale –, che ogni animale provvisto di chele non si masturba? Ecco la differenza tra l’uomo e l’astice. Beh, è qualcosa che fa sempre un certo effetto.
In questo modo, però, vi sfugge ciò che questa frase ha di storico. Non già per quello che asserisce – essa asserisce, e basta –, ma per la questione che introduce a livello della logica. Vi è ben nascosta, vero? L’unica cosa di cui non vi siete accorti è che contiene il pas-tout, che è molto precisamente e molto curiosamente ciò che la logica aristotelica elude pur avendo prodotto e messo in evidenza la funzione dei prosdiorismi, προσδιορισμοι, ossia, come sapete, l’uso di ogni, παν, e di alcuni, τι, attorno ai quali Aristotele compie i primi passi della logica formale. […]
È per questo che all’inizio non ho negato la differenza che c’è, perfettamente sensibile e fin dalla più tenera età, fra una bambina e un bambino. Questa differenza che si impone come innata è in effetti naturale. Essa corrisponde a quel che c’è di reale nel fatto che, nella specie che si autodenomina – figlia, in questa come in molte altre cose, delle sue opere – homo sapiens, i sessi sembrano suddividersi in due numeri più o meno uguali di individui. Questi individui si distinguono molto presto, prima del previsto – questo è certo.
Tuttavia vorrei farvi notare che ciò non rientra in una logica. Essi si riconoscono come esseri parlanti solo rigettando quella distinzione attraverso ogni genere di identificazioni, delle quali è ordinaria amministrazione della psicoanalisi rendersi conto che costituiscono la molla principale delle fasi di ogni infanzia. Ma questa è soltanto una parentesi.
L’importante dal punto di vista logico è che si distinguono. Non l’ho negato, ma c’è uno slittamento. Ciò che non ho negato, per esser precisi, non è questo. Li si distingue, non sono loro a distinguers.
E così si dice: Oh! Ma è un vero ometto! Come si vede già che è completamente differente da una bambina: è irrequieto, indagatore, già in cerca di successo. La bambina è lungi dall’assomigliargli: già non pensa ad altro che a ricorrere a quella specie di civetteria che consiste nel nascondere il viso da qualche parte e rifiutarsi di salutare. Solo che, ecco, ci si meraviglia di tutto questo soltanto perché è esattamente così che sarà in seguito, perché è conforme al tipo di uomo e di donna che si costituiranno a partire da tutt’altro, e cioè dalla conseguenza del valore che avrà assunto nel seguito la piccola differenza.
Inutile aggiungere che la piccola differenza – evviva! – c’era per i genitori già da un sacco di tempo, e che ha già potuto esercitare degli effetti sul modo in cui sono stati trattati l’ometto e la donnina. Non è scontato, non è sempre così, ma non è nemmeno indispensabile che sia così perché il giudizio di riconoscimento degli adulti circonvicini poggi su un errore. Questo errore consiste nel riconoscerli indubbiamente da ciò che li distingue, ma a riconoscerli soltanto in funzione di criteri formati in dipendenza dal linguaggio, ammesso che, come io sostengo, è proprio perché l’essere è parlante che c’è il complesso di castrazione. […]
Cerchiamo di andare avanti.
Vista l’ora, posso soltanto indicare rapidamente che, per quanto riguarda tutto ciò che si pone come rapporto sessuale, istituendolo con una specie di finzione chiamata matrimonio, sarà buona norma che su questo punto lo psicoanalista si dica: che si arrangino come possono.
È questa la regola che egli segue nella pratica. Ma non lo dice, nemmeno a se stesso, per una sorta di falso pudore, giacché si sente in dovere di rimediare a tutti i drammi. Si tratta di un retaggio di pura superstizione. Egli fa il medico, e il medico non ha mai avuto la pretesa di assicurare la felicità coniugale. Ma dato che lo psicoanalista non si è ancora reso conto che non c’è rapporto sessuale, egli è assillato da questo ruolo di provvidenza per le coppie.
Tutto ciò – il falso pudore, la superstizione e l’incapacità di formulare una regola precisa su questo punto, la regola che ho enunciato dicendo che si arrangino! – procede dal misconoscimento di qualcosa che la sua esperienza gli ripete, potrei anche dire che gli ripete fino allo sfinimento, e cioè che non c’è rapporto sessuale. […]
Prima di lasciarvi vorrei abbozzare qualcosa. Si tratta qui di esplorare quella che ho chiamato una nuova logica.
Essa è da costruire a partire da qualcosa che non c’è, vale a dire a partire da qualcosa che è da porre in primo luogo: nulla di ciò che avviene in conseguenza dell’istanza del linguaggio può mai sboccare in una formulazione soddisfacente del rapporto.
Questa esplorazione logica non consiste semplicemente nell’interrogarsi su ciò che impone un limite al linguaggio nella sua apprensione del reale. Nella struttura stessa di tale tentativo di avvicinarlo, nel suo stesso uso, essa dimostra ciò che può esservi di reale ad avere determinato il linguaggio. Non c’è forse qualcosa da cogliere qui?
8 dicembre 1971