Testo stabilito da Jacques-Alain Miller
edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia
Casa Editrice Giulio Einaudi, 2020
VI
Io ti chiedo di rifiutarmi quello che ti offro
Non è solamente sul rimbalzo dal non è questo che ti offro al non è questo che puoi rifiutare o anche al non è questo che ti chiedo che voglio insistere, bensí su quanto segue.
Forse ciò che non è questo non è affatto quello che ti offro, e se partiamo da qui prendiamo le cose per il verso sbagliato. In effetti, che cosa vuol dire che ti offro? A pensarci bene, non vuole affatto dire che ti do. Non vuol dire nemmeno che tu prendi, il che darebbe un senso a rifiutare. Quando offro qualcosa, è nella speranza che tu contraccambi. È proprio per questo che esiste il potlatch.
Il potlatch è ciò che sommerge, ciò che tracima l’impossibile insito nell’offrire, l’impossibilità che sia un dono. È per questo motivo che il potlatch ci è diventato completamente estraneo nel nostro discorso. Non c’è pertanto da sorprendersi se rimpiangendolo ne facciamo qualcosa che è supportato dall’impossibile, ovvero dal reale – ma per l’appunto: dal reale come impossibile.
Se non è piú nel quello che di quello che ti offro che risiede il non è questo, allora esaminiamo ciò che procede dalla messa in discussione dell’offrire come tale. Se ti chiedo di rifiutare, non già quello che ti offro, bensí che ti offro, togliamo l’offerta – questo famoso sostantivo verbale che sebbene sia un sostantivo minore è pur sempre qualcosa. Se togliamo l’offerta vediamo che la domanda e il rifiuto perdono ogni senso. E infatti, che cosa mai può voler dire chiedere di rifiutare?
Vi basterà pochissimo esercizio per rendervi conto che è rigorosamente la stessa cosa se da questo nodo, io ti chiedo di rifiutarmi quello che ti offro, tirate via uno qualsiasi degli altri verbi. Se tirate via il rifiuto, che cosa potrà voler dire l’offerta di una domanda? Come vi ho detto, è intrinseco all’offerta che, se togliete la domanda, rifiutare non significa piú nulla. Ecco perché la questione che ci si pone non è di sapere quanto riguarda il non è questo che è in gioco a ciascuno dei livelli verbali, bensí di renderci conto che è slegando ciascuno di questi verbi dal suo nodo con gli altri due che possiamo trovare ciò che riguarda l’effetto di senso in quanto io lo chiamo oggetto a.
Bizzarramente ieri sera, mentre mi interrogavo sul modo di presentarvi oggi la mia geometria della tetrade, mi è capitato proprio a fagiolo, cenando con una persona affascinante che segue i corsi di Guilbaud, venire a conoscenza di qualcosa che voglio mostrarvi, qualcosa che a quanto pare, come ho appreso ieri sera, è nientemeno che lo stemma dei Borromeo.
La cosa richiede un po’ di attenzione – è per questo che ce la metto. Ecco, non ho fatto errori.
Potete rifarlo con delle cordicelle. Se copiate tutto accuratamente vi accorgerete che – fate bene attenzione –, togliendo questo anello, il terzo, gli altri due vengono separati. Quello lí passa sopra quello a sinistra, e passa sopra anche in quest’altro punto. È solo a causa del terzo che stanno insieme. Se non riuscite a immaginarvelo, dovete fare la prova con tre pezzetti di corda. Vedrete che stanno attaccati.
Basta dunque che ne tagliate uno perché gli altri due si liberino, quantunque sembrino annodati, proprio come in un caso che voi conoscete bene, quello degli anelli dei Giochi olimpici, che continuano a tenersi anche quando ce n’è uno che ha tagliato la corda. Beh, tutto qui, e comunque si tratta di una cosa interessante, perché bisogna ricordare che quando ho parlato di catena significante ho sempre implicato questo tipo di concatenazione.
A quanto pare non ci si è resi conto che i binari hanno uno statuto speciale, in strettissima relazione con l’oggetto a. Se invece di prendere come esempio l’uomo e il cane, questi due poveri animali, si fossero presi l’io e il ti, ci si sarebbe accorti che la ricorrenza piú tipica di un verbo binario è per esempio io ti smerdo, oppure io ti guardo, o anche io ti parlo oppure io ti pappo. Si tratta delle quattro specie, le quali interessano soltanto per la loro analogia grammaticale, ossia in quanto sono grammaticalmente equivalenti.
E allora, non abbiamo forse qui, in una forma ridotta, minuta, qualcosa che ci permette di illustrare quella verità fondamentale per cui ogni discorso ottiene il proprio senso soltanto da un altro discorso? Certo, la domanda non basta a costituire un discorso, tuttavia ne possiede la struttura fondamentale, la quale consiste nell’essere, come mi sono espresso, un quadripode. Ho sottolineato che una tetrade è essenziale per rappresentarla, cosí com’è indispensabile un quaternione di lettere: F, x, y, z.
Nel nodo che ho presentato oggi, domanda, rifiuto e offerta traggono il proprio senso unicamente l’uno dall’altro. Ma ciò che risulta da questo nodo cosí come ho provato a scioglierlo, o meglio, se consideriamo la prova del suo scioglimento, è che non tiene mai con due soli elementi. È questa la radice di quello che è l’oggetto a.
Vi ho presentato il suo nodo minimo. Ma potreste aggiungerne altri. Perché non è questo – che cosa? Ciò che desidero. Potrebbe anche darsi, chissà?, che la peculiarità della domanda stia proprio nel non poter situare quello che è l’oggetto del desiderio. Quello che ti offro, che non è quello che tu desideri, io ti chiedo di rifiutarlo. Potremmo facilmente chiudere la faccenda con quello che tu desideri, e allora la lettera d’amuro si estenderà indefinitamente.
Chi non vede il carattere fondamentale di una simile concatenazione per il discorso analitico?
Una volta ho detto – è stato molto tempo fa, e c’è ancora chi ci si culla – che un’analisi termina solo quando qualcuno può dire, non già io ti parlo, e nemmeno parlo di me, ma è di me che ti parlo. Era un primo abbozzo. Non è forse chiaro che ciò con cui si fonda il discorso dell’analizzante è precisamente questo: io ti chiedo di rifiutarmi quello che ti offro perché non è questo? È la domanda fondamentale, e trascurandola l’analista la rende sempre piú pregnante.
Tempo fa ho ironizzato: con un’offerta l’analista crea una domanda. Ma la domanda che egli soddisfa è il riconoscimento di questo punto fondamentale: che ciò che si domanda non è questo.
9 febbraio 1972