Il Seminario. Libro XIX. ... o peggio

Testo stabilito da Jacques-Alain Miller
edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia
Casa Editrice Giulio Einaudi, 2020

IV

Dalla necessità all’inesistenza

 

Vorrei nondimeno soffermarmi un istante, se non altro per incitarvi a rileggerla, sull’enunciazione che ho prodotto dall’angolazione della significazione del fallo, di cui vedrete che al punto a cui sono arrivato – è un piccolo merito di cui mi vanto – non c’è niente che io debba ritoccare, sebbene all’epoca nessuno ci capisse proprio un accidente, come ho potuto constatare in loco.

Che cosa vuol dire la significazione del fallo? Un collegamento cosí determinativo bisogna sempre chiedersi se sia un genitivo oggettivo o soggettivo, differenza che illustro accostando due sensi opposti, rappresentati alla lavagna da due freccette. Un desiderio di bambino, genitivo oggettivo, è un bambino che viene desiderato. Un desiderio di bambino, genitivo soggettivo, è un bambino che desidera.

Potete esercitarvi, è sempre molto utile. La legge del taglione che ho scritto sotto senza ulteriori commenti può avere due sensi: può essere la legge costituita dal taglione, instauro cioè il taglione come legge, oppure ciò che il taglione articola come legge, vale a dire occhio per occhio, dente per dente. Non è la stessa cosa. Quello che vorrei farvi notare è che la significazione del fallo – e ciò che svilupperò varrà a farvelo scoprire –, nel senso che ho precisato del termine senso, e cioè la piccola freccia, è neutra. La significazione del fallo ha questo di astuto, che ciò che il fallo denota è il potere di significazione.

Φx non è dunque una funzione del solito tipo. A condizione di servirsi, per articolarla, di un prosdiorismo, ossia di qualcosa che non ha bisogno di avere inizialmente alcun senso e che è esso stesso prodotto dalla ricerca della necessità logica e da niente altro, l’argomento della funzione cosí contraddistinta assumerà significazione di uomo o di donna a seconda del prosdiorismo scelto, vale a dire o l’esiste o il non esiste, o l’ogni o il non-tutto.

È tuttavia chiaro che non possiamo non tenere conto della necessità logica che si è prodotta nell’accostamento con i numeri interi, per lo stesso motivo da cui sono partito, per cui questa necessità a posteriori implica la supposizione di ciò che inesiste come tale. Ora, è sorprendente che proprio indagando il numero intero, avendo tentato la sua genesi logica, Frege sia stato portato precisamente a fondare il numero 1 sul concetto di inesistenza.

Per essere stato portato a questo, bisogna proprio pensare che quanto circolava fino a quel momento a proposito di ciò che fonda l’1 non lo soddisfacesse come logico. Per lungo tempo ci si è accontentati di poco. Si pensava che non fosse difficile: ce ne sono vari, ce ne sono molti, beh, li si conta. Questo pone dei problemi insolubili per l’avvento del numero intero, giacché non si tratta di un segno che si è convenuto di fare per contarli.

Questi segni, ebbene, esistono. Recentemente mi hanno portato un libretto in cui c’è una poesia araba a questo proposito, la quale indica in versi che cosa bisogna fare con il mignolo, e poi con l’indice, e con l’anulare e altre dita ancora per trasmettere il segno del numero. Ma per l’appunto, poiché bisogna fare segno, vuol dire che il numero deve avere un altro genere di esistenza rispetto al semplice designare, per esempio, ciascuna delle persone qui presenti, come si potrebbe fare con l’abbaiare ogni volta. Perché queste persone abbiano valore di 1 occorre, come si è sempre rilevato, che le si spogli di ogni loro qualità, nessuna esclusa. Che cosa resta a quel punto? Certo, la questione è stata articolata da alcuni filosofi detti empiristi utilizzando oggetti minuscoli come le palline – sicuramente non c’è nulla di meglio di un rosario. Ma ciò non risolve affatto la questione dell’emergenza come tale dell’1.

19 gennaio 1972